Una visita a Sarajevo è come un match di pugilato, dove tu hai il ruolo di sparring partner da prendere a pugni in faccia.
Il primo che ti becchi è il ricordo della tragedia di fine secolo scorso: l’ assedio, i cecchini, la guerra e le sue devastazioni. Non è necessaria tanta memoria, ci sono ruderi e segni di proiettili in abbondanza per ricordartelo.
Poi arriva subito l’ uno-due: una povertà vista ormai di rado in Europa. Almeno prima del COVID.
La sensazione è quella di un’ emarginazione netta della Bosnia da parte dell’Europa che conta. Qui i restauri delle moschee sono finanziati dalla Turchia, e la costruzione di quelle nuove dall’ Arabia Saudita.
I cimiteri
Un altro pugno in faccia sono le macchie bianche dei cimiteri sulle colline.
Durante l’ assedio si utilizzò ogni spazio disponibile per dare degna sepoltura ai caduti. Finanche lo stadio delle olimpiadi invernali del 1984.
Le colline che circondano Sarajevo erano un tempo piene di boschi. Gli assediati e gli assedianti usarono praticamente ogni albero esistente a Sarajevo. Per riscaldarsi, per costruire per ripararsi. Oggi quelle colline sono costellate di macchie bianche: lapidi di marmo per la maggior parte in stile musulmano. Le date iscritte sono tutte tragicamente simili.
La Baščaršija
La Baščaršija è il nucleo dell’ antica città musulmana. E’ la sede del mercato, il luogo che ospita moschee, il posto dove ci si ritrova, magari nei pressi della fontana di Sebilj oppure seduti a fumare la shisha in uno dei tantissimi bar.
Fu quasi completamente distrutta durante l’ assedio. I mortai serbi sulle colline amavano dirigere proprio lì i loro colpi.
Il pugno in faccia stavolta è uno sfuocato ricordo che risale al 2002. Le macerie erano state rimosse ed il mercato riprendeva lentamente vita. Scendevamo lungo le ripide strade di una mahalla. Svoltato un angolo mi ritrovai davanti alla fontana di Sebilj. La piazza era vuota, non c’ erano neanche i piccioni. Qualche bottega del bazaar era aperta e fuori pendevano oggetti di rame in vendita.
Più di quindici anni dopo, la Baščaršija rappresenta la Sarajevo rinata, forse meno autentica o semplicemente più turistica rispetto ai tempi di prima della guerra e dell’ assedio
Ma non solo turistica. A differenza dei primi anni del secolo, ora qui il viavai è continuo. I negozi non vendono solo paccottiglia simil-artigianale, ma sono pieni della mercanzia che serve alla gente del luogo. C’è il quartiere dei fabbri, quello dei sarti, quello degli orafi. Chi abita qui sa quale angolo girare quando gli serve qualcosa.
In un tempo in cui la lotta delle donne per la parità di genere è stata confinata nelle riserve indiane delle quote rosa, è bello scoprire che uno degli angoli musulmani d’ Europa, la Baščaršija, è un posto di barbieri al femminile.
Ce ne sono tante di botteghe dove a raderti e a tagliarti i capelli c’è una donna. Visione insolita, in un luogo dove ancora oggi non è raro vedere donne vestite in nero e completamente velate, con solo gli occhi offerti alla vista. Per me una visione unica. Non conosco un altro posto dove i barbieri sono in prevalenza donne.
Sarajevo Meeting of Cultures
C’è un punto preciso della città, passeggiando verso Ovest e lasciandosi alle spalle la Baščaršija, in cui le antiche case ottomane terminano ed inizia la città asburgica, con i suoi edifici imponenti e l’ Art Nouveau che torna a manifestare la sua alterità rispetto a ciò che la circonda. E’ un punto ben identificato da un’ iscrizione sul pavimento: Sarajevo Meeting Of Cultures.
Lo Jugendstil segnò una rottura al suo primo apparire nel cuore dell’ Europa. Era una frattura con le linee rigide del Neoclassicismo imperante e che rispecchiava fedelmente il rigore e le chiusure della società dei tempi. Lo Jugendstil era fantasia, apertura. Curiosità.
Poi arrivò il boom economico e culturale di quel tempo a cavallo dei secoli, che trasformò le città europee. Via le linee rette, viva le curve. E la nuova, ormai solida, borghesia, con genealogia breve e appetiti ed esperienze recenti, stratificò nella forma ondulata il suo desiderio di stabilità.
Ma neanche cinquant’ anni dopo, l’ avvento delle grandi dittature nazionalsocialiste e comuniste cambiò ancora una volta lo scenario. Lo Jugendstil era nuovamente elemento di rottura, diveniva corpo estraneo in un mondo di rigida pianificazione abitativa; una voce fuori dal coro nel mondo grigio e livellato del socialismo reale.
Le culture che si incontrano in questo baricentro ideale, non sono solo quella ottomana e quella asburgica. Io ci vedo un incontro più universale, di una forma artistica di rottura con tutte le rigidità e gli oscurantismi della storia.
La città nuova
Oltrepassato questo limite, ci si inoltra nella città nuova, con i suoi viali larghi, i parchi, le chiese e gli imponenti edifici pubblici. Jugendstil nelle forme del palazzo della banca nazionale bosniaca; pomposità titina nel monumento ai caduti non molto lontano.
Se poi si continua ancora a passeggiare verso la periferia, l’ incanto dell’ Art Nouveau restaurata termina presto, più o meno all’ altezza di dove un tempo si aprivano le porte del più bel caffè di Sarajevo, l’ Imperial.
E’ una storia triste quella dell’ Imperial, un altro uppercut nel nostro match da sparring partner. Era bellissimo, il luogo d’ incontro dell’ intelligentsija sarajevese. Ora al suo posto c’è un negozio di vestiti.
Sopravvissuto a due guerre, alla dittatura di Tito ed ai bombardamenti serbi, ha ceduto all’ impeto capitalista della ricostruzione, ed ha chiuso i battenti, seguendo a ruota il destino del cinema a fianco che portava il suo stesso nome. Il bel palazzo Jugendstil che li ospitava, il primo fabbricato di Sarajevo ad avere un ascensore, sta cadendo lentamente in rovina.
(Karl Schlögel: Arcipelago Europa. Viaggio nello spirito delle città)
Le rose di Sarajevo
La Città Nuova è anche il luogo delle Rose di Sarajevo. Un altro pugno in faccia.
Sono le cicatrici lasciate sui marciapiede dalle bombe di mortaio serbe: nei luoghi dove la bomba ha ucciso tre o più persone, i fori lasciati dall’ impatto della bomba e delle schegge sono stati riempiti di resina rossa. Resteranno lì per decenni, ed a loro si attaglierebbe perfettamente l’ iscrizione che è installata sul monumento al prigioniero sconosciuto nel campo di concentramento di Dachau:
In ricordo dei morti e come avvertimento per i viventi.
E poi eccone ancora un altro, di cazzotto: le facciate degli edifici sono come vecchie groviere. Colpi di mortaio, colpi di fucile: non cadevano solo sulla strada. Colpivano anche i palazzi, danneggiandoli. E spesso i fori sono ancora a lì, a ricordarti la tragedia dei bombardamenti e dei cecchini.
Non so se i restauri non li hanno fatti per mancanza di soldi o per voglia di preservare una memoria tragica. Forse è buona la prima. Cammini ed un foro è proprio all’ altezza della tua testa. Magari fai finta di niente, ma ci pensi…
Un altro monumento
E mentre cammini e ci pensi, ecco il colpo del KO, che arriva proprio sul limitare della città nuova verso la periferia.
La Maršala Tita si allarga e su un lato della piazza un parco alberato offre ombra e panchine. Ma non solo. La piramide spezzata di vetro circondata da una fontana che è lì, proprio al centro simbolizza un castello di sabbia distrutto ed è il monumento ai bambini uccisi durante l’ assedio. Furono più di 1.500 le piccole vittime. Ed i loro nomi sono stampati su delle colonnine di alluminio poste a poca distanza.
Un elenco di nomi che fa da contraltare al muro di marmo bianco che delimita il cimitero di Kovaci, nella città vecchia. Qui è sepolta la maggior parte delle vittime dell’ assedio. E tutti i loro nomi sono incisi su quel muro di marmo.
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Moving photos of a city that has seen much war and tragedy.
Thank you very much, Karen!