Quaranta anni fa, il 23 novembre del 1980, la terrà tremò, e novanta secondi dopo una porzione d’ Italia grande quasi quanto il Lazio era stata devastata ed in gran parte cancellata dalla carta geografica.
Il terremoto d’ Irpinia presentò un conto di tremila morti, duecentoottantamila senzatetto, novemila feriti. Strade spaccate ed impercorribili, ferrovie danneggiate, stazioni crollate, linee elettriche fuori uso furono soltanto il corollario della tragedia.
Giorni di tragedia e lutto
Furono giorni di lutto, paura e gelo, perché assieme al terremoto calò l’ inverno, e per coloro che erano alloggiati nelle tende la vita si fece ancora più difficile.
Il terremoto d’ Irpinia colpì alle 19,30, ed era notte. Solo il giorno dopo si iniziò a capire quanti fossero i danni. ce ne vollero tre di giorni per rendersi conto della reale dimensione della tragedia. I paesi più remoti erano irraggiungibili e le comunicazioni di 40 anni fa non erano quelle di oggi. Con le linee telefoniche saltate fu necessario che i primi soccorsi raggiungessero i luoghi per rendersi conto di ciò che era successo.
Anche io il 23 novembre mi ritrovai in mezzo alla strada, tra nuvole di polvere, calcinacci e ondate di paura. La casa dove abitavo era ancora in piedi, ma quell’ appartamento era al sesto piano, l’ ultimo di un palazzo stretto ed alto. Ci volle coraggio, ma fummo costretti a salire lassù per qualche minuto. E mentre i miei famigliari recuperavano coperte ed abiti caldi, io mi diressi verso l’ armadio dove conservavo l’ attrezzatura fotografica.
I giorni successivi furono un lungo ed ininterrotto corollario di scavi a mani nude alla ricerca dei sopravvissuti sotto le macerie. Ma avevo con me la mia Pentax e mi giocai tutti gli scatti che mi permisero le mie purtroppo limitate scorte di Ilford FP4.
Herr Stählin ed io
Il giorno dopo la scossa, quando la notizia del catastrofico terremoto d’ Irpinia si sparse nel mondo, l’ ingegnere Charles Stählin caricò in macchina l’ apparecchio di sua invenzione e – accompagnato dalla figlia – partì da Oberengstringen, in Svizzera, diretto verso la zona di maggiore distruzione, quella che all’ epoca era conosciuta come il cratere.
Lo strumento realizzato dall’ ingegnere Stählin era un rilevatore ed amplificatore di suoni, la cui sonda, tramite un lungo filo metallico, poteva essere inserita tra le macerie, con la speranza di ascoltare qualche segnale che indicasse che sotto quelle pietre c’ erano dei sopravvissuti.
Oggi, quarant’ anni dopo, macchinari del genere sono diffusissimi, ma per l’ epoca si trattava di una novità. Quelli erano i tempi in cui le ricerche si effettuavano ancora quasi esclusivamente con i cani e rimuovendo con attenzione i detriti, alla ricerca disperata di chi ci fosse seppellito.
Per quanto affetto da una leggera zoppia, Stählin era capacissimo di cavarsela solo, ma non aveva alcuna dimestichezza con la lingua italiana. Al centro di coordinamento degli aiuti, ospitato in una scuola del capoluogo, uno degli edifici che non aveva subito danni dal sisma, gli assegnarono dunque come interprete un giovane avellinese che aveva studiato Tedesco a scuola.
Ero io.
In viaggio per il cratere
Il tempo delle presentazioni di rito e si partì per le zone più devastate della provincia.
Lioni, con le strade spaccate dal sisma e la stazione crollata, i carri merci sui binari ad ospitare i senza tetto, la casa comunale accartocciata attorno ai pilastri che avevano ceduto.
Bisaccia ed il suo ospedale crollato su sé stesso, incastrando tra un solaio e l’ altro i letti ed i degenti che non avevano potuto fuggire. I Vigili del Fuoco erano costretti a farsi spazio con la fiamma ossidrica tra i tondini di acciaio e le reti dei letti accartocciate. Tutt’ attorno si spandeva un odore atroce.
Calabritto, con le bare depositate ai bordi della strada. Poi Teora e ancora Sant’ Angelo di Lombardi, quasi completamente rasa al suolo, con l’ ospedale da campo montato all’ interno del campo sportivo.
La distruzione a Conza della Campania
Ma la distruzione totale, quella la vidi a Conza della Campania. Del paese non era rimasto nulla, solo ammassi di pietre e tufo. Era crollata anche la cattedrale del paese, uccidendo tanti fedeli (era una domenica, il 23 novembre 1980). Crollate praticamente tutte le case. L’ unica struttura rimasta in piedi era il serbatoio dell’ acqua, che spiccava proprio in cima alla collina, incongruo, a dominare un panorama di macerie e morte.
Per la verità ebbi poche occasioni di rendermi utile con la conoscenza della lingua. Al massimo il Tedesco mi servì per parlare con l’ ingegnere e sua figlia e con i soldati dell’ esercito della Repubblica Federale che erano già arrivati con i loro enormi camion, un ospedale da campo, novanta medici, seicentocinquanta uomini e tre elicotteri.
Ma la mia presenza fu in qualche modo ugualmente utile, perché per posizionare quel microfono c’ era bisogno di qualcuno che strisciasse sotto i solai crollati, si infilasse tra le crepe di un muro di tufo, indirizzasse con precisione la sonda all’ interno di una cantina invasa dalle macerie.
Furono giorni vissuti con disperazione e con il cuore in gola. A Calabritto, in piedi sui resti di un muro di tufo che un tempo era parte di una casa a picco sulla scarpata, dopo aver sistemato la sonda, ero a fianco di Stählin ed osservavo gli aghi del rilevatore: erano immobili, nessun suono proveniva da quelle macerie. Poi all’ improvviso gli indicatori iniziarono a muoversi ritmicamente su e giù, con grande estensione. Neanche il tempo di realizzare cosa stesse succedendo e la scossa di assestamento fece vibrare e scricchiolare il muro. Resse. Fosse crollato, non ci sarebbe più stato l’ ingegnere ed io non sarei invecchiato.
Vite salvate
E finalmente poi di nuovo ad Avellino. La distruzione di Piazza del Popolo e di via Cascino, il centro storico venuto giù, il mercato scomparso. Le stradine in pendenza della parte più popolare della città ridotte a collinette di mattoni di tufo che nascondevano morte e distruzione. Noi a calare quella sonda in ogni buco praticabile, sempre con la speranza di ascoltare un fremito sotterraneo.
Durò oltre una settimana il lavoro di Charles Stählin e diede i suoi frutti: una dozzina di persone furono salvate dopo essere state rintracciate sotto le macerie grazie al suo apparecchio. Anni dopo, per questo suo intervento, all’ ingegnere svizzero fu assegnata un’ onorificenza ufficiale.
Dei terribili giorni del terremoto d’ Irpinia ho conservato diverse centinaia di stampe in bianconero,.
Sono fotografie realizzate in condizioni difficili, sviluppate e stampate con mezzi di fortuna, conservate con tutta la cura possibile e poi riportate a più lunga vita grazie alle nuove tecnologie digitali. Alcune tra le più significative sono esposte in queste pagine. Non c’è nessuna ricerca artistica. Queste foto sono un documento, un frammento di storia tragica del nostro paese, un omaggio alle migliaia di vittime di quel terribile giorno, un simbolo di comunanza con tutti coloro che – in Italia e nel mondo – hanno vissuto la stessa straziante esperienza.
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Grazie. Dice che le sue foto sono mera documentazione. In genere non mi spendo con considerazioni vaghe e poeticanti, ma l’onestà ripaga, e le immagini ripercorrono la strada delle sue parole. Molto belle, anche formalmente. E non può che essere dimostrazione di sensibilità, di tatto, di intelligenza.
Grazie delle sue belle parole; mi hanno fatto molto piacere.
Grazie per questi scorci straordinari di vita e di morte : ricordi tatuati nel cuore e nella mente! Giuseppina Nadia Tufano(Conza della Campania).
Grazie a lei per l’ attenzione e per le belle parole. Quei ricordi resteranno dentro di noi per sempre.
Sono capitato per caso sul tuo blog attraverso il forum della 500 dove hai postato delle foto. Solo una parola: complimenti, per l’esperienza vissuta e per gli scatti.
Trent’anni sono lunghi e sbiadiscono molto i ricordi che ognuno di noi conserva di quel nostro triste “anno zero”. Ma in effetti ce lo diciamo ancora, tutte le volte che usiamo nei nostri discorsi sempre quella stessa espressione: “prima del terremoto/dopo il terremoto”. Un pò come se fosse un avanti e dopo Cristo, esattamente la fine e l’inizio di un’era. L’abbiamo metabolizzata e interiorizzata, questa tragedia così simile ad una Apocalisse, che ha regalato a noi sopravvissuti il triste dono della comprensione della precarietà del nostro mondo quotidiano e di tutto quanto intorno a noi ci sembrerebbe a prima vista solido, durevole ed eterno. I morti con il loro sacrificio hanno offerto ai vivi questa preziosa consapevolezza, che ci ha reso migliori e ci fa migliori ancora oggi, tutte le volte che la facciamo rivivere. Grazie a Giuseppe delle bellissime foto e della bella e ricca testimonianza, e grazie a voi che leggete della bella occasione prospettatami per riflettere.
Resquiescant in pace
Carlo Crescitelli