La strada da Akureyri punta verso Nord lungo la sponda occidentale dell’ Eyjafjördur. Sessanta chilometri dal fondo allo sbocco al mare, circondati da montagne innevate che sfiorano i mille metri.
E mille metri, a queste latitudini sono un’ enormità, ben oltre il limite delle nevi perenni.
Sopra i quattrocento metri di altitudine in Islanda non vive nessuno, non ci sono pascoli. Solo rocce e ghiaccio.
La nebbia va e viene, ma quando va via scopre panorami mozzafiato, a strapiombo sul mare. Dietro una curva la sorpresa di una cascata che precipita per centinaia di metri fino a raggiungere direttamente le acque del fiordo. Il tonfo sulla superficie del mare deve essere più fragoroso del rumore delle alte onde dell’ oceano che battono in continuazione questa altissima falesia.
Dalvik. Poche case, niente traffico ed un segnale di pericolo per attraversamento anatre.
Poi la strada inizia a salire verso il passo di Öxnadalsheidi a 540 metri di altezza.
Entriamo nel Tröllaskagi con cielo macchiato di nuvole in transito veloce ed un panorama splendido. Il blu cobalto del fiordo da un lato, il verde ed ocra, poi bianco delle montagne dall’ altro.
Pendii alti e scoscesi ma che non sembrano intransitabili.
Sono ingannatrici queste montagne. Non ci sono picchi rocciosi ad intimidirti, il deserto minerale di altipiani desolati.
Senza alberi, tutto è in vista e ogni sentiero sembra facilmente percorribile. Ma è un inganno, agevolato dalla luce del sole che quando c’è ingentilisce tutto. Non vorrei essere qui da solo in una notte d’ inverno.
Prima di arrivare a Siglufjördur, un buco nero: un tunnel di quattro chilometri, ma che tunnel strano! Sembra di entrare in una miniera. La galleria non è rivestita di cemento, è nuda roccia lavica, nera. All’ interno l’ illuminazione è scarsa. La carreggiata è unica ed è anche stretta! C’è a malapena lo spazio per far transitare un camion. Ogni cento metri, e solo da un lato, c’è una piazzola, lunga quanto basta per farci entrare due automobili.
In questi tunnel in Islanda il diritto di precedenza è regolato dalla presenza della piazzola di sosta. Chi ce l’ ha dal suo lato di marcia deve lasciar passare gli altri velivoli.
Ma i problemi sorgono quando ad incontrarsi sono due camion!
L’ autotreno che non ha diritto di precedenza deve fare retromarcia, al buio, con la carreggiata stretta e magari con altre auto o altri TIR dietro di sé. Retromarcia fino all’ imbocco della galleria se è troppo ingombrante per sostare nella piazzola!
E se il tunnel è lungo cinque chilometri e l’ incontro avviene giusto a metà strada, la faccenda si fa lunga e complicata.
Finalmente raggiungiamo Siglufjördur. Grazie all’ industria della pesca e lavorazione delle aringhe, questo villaggio è stato il Klondyke degli Islandesi nella prima metà del XX secolo .
Tutto iniziò nel 1903, con l’ arrivo dei Norvegesi. Erano alla ricerca di pesce con nuove tecniche: le reti a circuizione, che possono rinchiudersi velocemente attorno ad un’ intero banco di aringhe. I risultati di quest’ innovazione tecnologica si rivelarono eccellenti.
Allo sviluppo della pesca seguì quello di Siglufjördur. Il villaggio divenne l’ incontrastato centro dell’ industria della pesca fino ad arrivare a contare – nel periodo di massima prosperità – ventitre stazioni di salatura e cinque industrie di lavorazione.
Si instaurò così un’ atmosfera simile a quella della corsa all’ oro. Tanto che Siglufjördur venne soprannominata appunto “Klondyke islandese” e divenne la base operativa di centinaia di pescherecci destinati alla pesca delle aringhe. C’ era ormeggio per tutti nelle protette acque del fiordo quando infuriava il cattivo tempo.
A terra erano centinaia le persone che lavoravano, senza contare i pescatori. Un numero enorme in relazione alla popolazione islandese. Ma bisogna fare i conti con la povertà di quel tempo. Il villaggio iniziò ad attrarre anche speculatori, che si arricchivano o perdevano tutto con inquietante frequenza.
Siglufjördur divenne così fucina di nuovi equilibri sociali. Quelle migliaia di Islandesi che fecero fortuna con le aringhe erano dei disperati, appartenenti ai settori più poveri della popolazione. Solo a causa della povertà e della fame avevano accettato di lasciare i propri luoghi natali e trasferirsi al Nord, nella parte più fredda ed inospitale della fredda ed inospitale Islanda.
E fu grazie alle aringhe che in capo a pochi anni costoro si ritrovarono agiati o benestanti o addirittura ricchi. Uno sconvolgimento dei precedenti equilibri sociali ed economici che darà la spinta alla modernizzazione della società e dell’ economia di quest’ isola, al tempo ancora ancorate a modelli quasi di sopravvivenza, basati sulla pesca e su attività agricole e pastorizie. Tutte troppo intimamente connesse alle imprevedibilità del clima artico.
Questo fervore durò una trentina d’ anni.
La fine dell’ epopea fu segnata – paradossalmente – dall’ introduzione della scoperta scientifica che permise un ulteriore aumento del pescato e quindi della ricchezza prodotta. Il sonar permetteva di localizzare in anticipo i grossi banchi di aringhe così che le imbarcazioni potessero dirigersi esattamente nel punto migliore per la cattura.
Ma le risorse della Natura non sono illimitate. Il supersfruttamento fece diminuire di numero e di volume i banchi di aringhe, finché, nel 1969, queste sparirono.
Da allora Siglufjördur non si è mai più ripresa. Oggi dei moli superaffollati di cinquant’ anni fa non resta che qualche moncone arrugginito, con pochi pescherecci attraccati. Per la strada la gente è poca.
I collegamenti sono assicurati dalla strada tortuosa che abbiamo appena percorso e da una striscia di asfalto che funge da aeroporto, ma non ci sono collegamenti di linea. Le industrie di lavorazione sono state chiuse e smantellate.
In una delle più vecchie, Róaldsbrakki, realizzata in puro stile norvegese – con il legno dipinto di rosso e le finestre bianche – è stato installato un interessante museo dedicato alla memoria di quei tempi “eroici”.
All’ interno ci sono le linee di produzione di un tempo, antichi pescherecci dell’ inizio del ventesimo secolo, abiti ed attrezzature da lavoro, ed anche esempi di tutto ciò che veniva prodotto con le aringhe, dalle conserve in scatola agli ingredienti per la realizzazione di creme per il corpo.
Fuori c’è un bar aperto, il vento che sbatte sugli alberi delle imbarcazioni ormeggiate e quasi nessuno in giro.
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1 thought on “Siglufjördur, il Klondyke islandese”