L’ isola di Angmassalik è lunga quaranta chilometri e larga trentadue; ha una forma pressappoco romboidale, con l’ asse maggiore orientato in direzione Nord-Sud.
E’ un’ isola di granito levigato dal ghiaccio, montagnosa, caratterizzata da numerose valli piccole e profonde, anch’ esse modellate dall’ erosione glaciale. Solo le cime delle montagne spesso restano aguzze; evidentemente in passato erano nunataq: un termine inuit che indica un picco montagnoso che emerge dalla calotta polare. Ed anche una persona cattiva.
Il mare che la separa dall’ isola-continente si insinua in forma di fiordi di varia dimensione ed ampiezza; Angmassalik si affaccia sul mare aperto solo sul lato meridionale, da quelle ripide falesie dalle quali si apre la vista del Polar Stream che trascina gli iceberg dal Polo verso latitudini più meridionali.
Utilizzando una piccola imbarcazione, ci vuole almeno un giorno per effettuare il periplo dell’ isola. Ci si avventura prima ai bordi del Polar Stream, poi nel fiordo Sermilik, sempre invaso dagli iceberg e poi, attraverso fiordi più liberi da ghiacci fino a tornare di nuovo a Tasiilaq.
E’ questo il nostro programma di oggi: girare intorno all’ isola, scoprire cosa c’è dietro l’ angolo remoto di mondo nel quale temporaneamente viviamo.
Siamo di nuovo a bordo di un Boston-Wheeler, con ai comandi lo stesso Agloolik che già ci ha portato in cerca di iceberg e foche, ma stavolta abbiamo compagnia in barca.
Con noi viaggia una giovane coppia inuit e l’ imbarcazione è piena di materiale che viene trasportato. Noi siamo i turisti, ma la barca è in giro per lavoro. Qui strade non ce ne sono e d’ estate la maggior parte delle comunicazioni si svolge per mare. Solo i ricconi possono permettersi l’ elicottero, e di ricconi in Groenlandia non è che ce ne siano tantissimi.
Fa freddo. Sul mare il vento è costantemente teso, l’ acqua ha una temperatura vicina allo zero e gli iceberg sono vicini. E’ necessario essere molto ben coperti per evitare l’ assideramento. E soprattutto è indispensabile non finire in acqua!
Usciti dal fiordo, manteniamo alla nostra destra la costa alta e scoscesa; praticamente le montagne finiscono direttamente in mare, e i picchi si innalzano anche oltre gli 800 metri. Passiamo vicino a gruppi di scogli bassi, tondi e lisci prima di virare a Nord all’ imbocco del Sermilik: un fiordo lungo oltre cento chilometri e largo in media circa dieci chilometri; ma come tutti i fiordi, si fa sempre più stretto man mano che ci si avvicina al suo fondo.
Poco dopo esserci addentrati nel fiordo, tra la bruma si intravede sulla nostra sinistra un pontile di legno. La barca accosta e noi scendiamo: siamo approdati ad Ikateq!
Agloolik prosegue il suo viaggio di consegne. Passerà a riprenderci più tardi.
Ikateq ufficialmente ha un abitante, ma in realtà è un villaggio fantasma, completamente disabitato.
Sorge su una piccola isola, all’ imbocco del fiordo; dall’ altro lato, a limitare l’ estremità occidentale del Sermlik, c’è Capo Tycho Brahe.
Che nome! Perfetto per sognare su un atlante, come la Terra di Francesco Giuseppe: nessuno dei due ha mai messo piede sul ghiaccio artico. Quei segni sulle carte geografiche sono un’ emozione, un omaggio, una piaggeria, tutto meno che il ricordo della loro visita.
Tycho Brahe fu quello che si avvicinò di più a queste latitudini, e non andò oltre l’ isoletta di Uranienburg, che almeno apparteneva allo stesso regno della Groenlandia.
La sua immagine è però più legata ai tempi cabalistici di Praga:
Dell’ astronomo che ha dato il nome al capo che immaginiamo sorgere aldilà delle acque grigie ed immobili del fiordo, Ripellino traccia un ritratto magistralmente speziato: Praga è un’ altra emozione, un ricordo che mi sfiora mentre risaliamo la collina in cima alla quale sorgono le case in legno di Ikateq, che negli anni del suo massimo sviluppo arrivò a contare fino a 70 abitanti.
Erano tutti cacciatori. Quando la caccia fu in gran parte vietata e regolamentata, persero ogni fonte di sostentamento e si spostarono verso Tasiilaq in cerca di sussidi statali ed alcool a buon mercato. Restarono ad Ikateq solo le donne ed i vecchi, poi gradualmente le donne raggiunsero i mariti e restarono solo i vecchi, che pian piano morivano. L’ ultimo se ne è andato nel 2005 e da allora l’ abitato è deserto anche se sulle carte ufficiali la popolazione è ancora 1.
Sarà che l’ ultimo abitante del posto non ha trovato il modo di farsi cancellare dai registri anagrafici.
Una volta in cima, poche costruzioni in legno, un deposito, una grossa struttura per essiccare il pesce ed una chiesa con annessa un’ aula scolastica.
Tutto però è come se la città fosse ancora abitata: in chiesa l’ organo ha ancora gli spartiti sul leggio, nell’ aula ci sono i libri sul tavolo, i gessetti, una lavagna carica dei graffiti dei visitatori, la carta geografica (vecchiotta) appesa al muro.
Le case hanno i vetri intatti, all’ interno è visibile l’ arredamento, i cappotti appesi alle grucce, le stoviglie, i soprammobili. Ci sono slitte di legno e cucce per i cani, depositi di attrezzi e pezzi di ricambio di barche. Ma non c’è anima viva. Come se il tempo si fosse cristallizzato per colpa del freddo e gli abitanti fossero scomparsi tutti all’ improvviso. Come se il paese non avesse attraversato una lunga fase di decadimento o come se qualcuno passasse a fare le pulizie ogni settimana.
Meno male che d’ estate qui non fa mai buio, perché ci sarebbe quasi da avere timore per i fantasmi che sicuramente si aggirano tra queste case!
Questi racconti sono tratti dal mio libro “Ventisette giorni e tre notti”, totalmente autoprodotto, corredato di oltre duecento fotografie a colori.
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Come sempre molto ineressante coinvolgente e
Arguto! Le foto non sono da meno
Grazie Vincenzo!