Poco fuori Tasiilaq. Ai limiti del ghiaccio perenne. In una delle zone più desolate ed inospitali del mondo. Qui l’ inverno dura nove mesi e per sei mesi la luce del sole è un pallido ricordo dell’ anno precedente. Eppure qui c’è la Valle dei Fiori.
E’ una valle glaciale lungo la quale scorre un torrentello cortissimo, ma così corto che lo abbiamo risalito tutto, dalla foce, nel porto di Tasiilaq, alla sorgente, che è poi un lago di fusione. Sarà pure corto, ma è full optional: ci sono due cascate molto pittoresche ed un’ ansa dove l’ acqua scorre placida e larga.
Grazie alla sua esposizione, durante i mesi caldi l’ intera valle è quasi sempre illuminata dal sole.
Qui l’ estate dura poco, ma in quei pochi giorni il verde bruno della tundra della valle è letteralmente cosparso di piccoli fiori multicolori. Un rigoglioso risveglio della natura, che in quei giorni sprigiona tutta la sua potenza e la voglia di uscire dal lungo letargo invernale.
Il punto più bello della valle è una piccola altura da dove si può vedere l’ ansa del torrente e le prime case colorate del villaggio. In fondo il fiordo, gli iceberg, le montagne con le cime ricoperte di ghiaccio.
Non lontano dal centro abitato, dove la valle si allarga prima di giungere al mare, c’è il cimitero del paese. Tante croci bianche, senza un nome, per un motivo ben preciso che affonda le sue radici nella cultura ancestrale del popolo inuit.
Questo è un luogo di frontiera. La cultura (in senso lato) degli Europei vi è approdata relativamente da poco e ha cercato in ogni modo di omologare la civiltà inuit, senza però riuscirci del tutto.
Esistono sacche che si sono rivelate impermeabili alla colonizzazione culturale occidentale ed altre in cui si è giunti all’ elaborazione di una sintesi.
Questo sincretismo è ben visibile in campo religioso: l’ avvento del cattolicesimo non ha infatti cancellato la tradizione animista degli uomini dei ghiacci.
La tradizione inuit vuole che il nome di ogni trapassato sia trasferito ad un’ altra persona, di modo che possa continuare a vivere di generazione in generazione. Presso tutti gli eschimesi un bambino porta sempre il nome di un parente morto da poco, il che facilita la reincarnazione. La credenza nella rinascita come essere umano o nella trasmigrazione nel corpo di un animale, è assai diffusa tra gli eschimesi e riporta alle culture di quell’ Asia da cui gli Inuit provengono.
Le croci sono anche addobbate con fiori, ma non sono i fiorellini che punteggiano il prato della valle; sono di plastica, costano di meno, durano di più e sono sempre disponibili, al contrario dei prodotti dell’ estate artica, che vivono per un mese o poco più.
Anche la pratica dell’ inumazione in terra è stata adottata solo dopo la penetrazione della religione cattolica. Prima, i corpi venivano mummificati (se si trattava di un valoroso cacciatore o di un personaggio di rango). Oppure erano esposti alle intemperie, perché si decomponessero o fossero sbranati dagli animali selvatici. Credenze, ma anche senso del pratico: non dev’ essere per niente facile scavare una fossa abbastanza profonda nel durissimo permafrost.
Questi racconti sono tratti dal mio libro “Ventisette giorni e tre notti”, totalmente autoprodotto, corredato di oltre duecento fotografie a colori.
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come sempre è un vero piacere leggere per avere spunti interessanti … immergendosi negli scenari oggetto dei tuoi viaggi