Oltre il buio della galleria, poco più alta di me e scanalata dai segni delle mannare, la luce è fioca, di una profonda tonalità aranciata. Che colore singolare: è pieno mattino e davanti agli occhi ho la luce del tramonto.
Sono all’ interno di una delle centinaia di cave di tufo di Favignana (ne sono state mappate 187). Enormi camere scavate a mano nella calcarenite sono divise da pilastri che di solito sono fatti di pietra più dura o meno pregiata. A volte invece sono di pietra di buona qualità, ma bisognava comunque lasciarli per garantire la stabilità dei cunicoli. Quei pilastri servono infatti a sostenere il soffitto. Senza di essi, lo scavo collasserebbe.
Innumerevoli gallerie partono dal condotto principale come in un labirinto: alcune sono cieche e terminano contro una parete di roccia, altre si congiungono tra loro a formare queste grandi camere. Qualcuna sbocca sul mare. Da lì i blocchetti di tufo venivano caricati sulle imbarcazioni e spediti ai committenti.
Il cunicolo che sto seguendo, a giudicare dalla luce che proviene da oltre l’ angolo, ha un’ apertura. Da lì entra la luce azzurra del mare d’estate. Ma quei raggi sbattono sulle pareti di tufo e ne assorbono il colore. Potrebbe essere la luce di centinaia di lampade, come quando qui un tempo si lavorava senza pause.
“Il lato orientale di Favignana è pieno di buchi. E solo questo lato qui, perchè dall’ altra parte, oltre la collina, di tufo non ce n’è.” mi spiega Federico. Il suo aspetto è un compendio della storia delle dominazioni siciliane: gli occhi azzurri dei normanni ed il portamento compatto della controparte araba si fondono in una sintesi non rara da queste parti. La sua conoscenza dell’ isola è enciclopedica grazie ad una passione ultradecennale e ad una precedente esperienza amministrativa. È capace di tenerti attaccato ai suoi racconti anche mentre si guarda una pianura apparentemente arida e priva di interesse.
“Si iniziava a scavare dal mare e si entrava sempre più dentro, dove il materiale è più pregiato. L’ inizio dello scavo corrispondeva al corridoio di uscita del materiale. Era un lavoro da minatori, anche se con qualche pericolo in meno. Si potevano usare le lampade ad acetilene, ad esempio.”
Quasi tutte le case del comune di Favignana, continua a raccontare, hanno il loro accesso ad una cava, dalla cantina o dal giardino. Immagino il rituale del mattino, decenni fa: svegliarsi e prepararsi per il lavoro. Poi si apriva una porta, si scendevano dei gradini e si cominciava a picconare.
La luce fioca, il silenzio, colonne e rientranze: è come essere in una chiesa. Su una parete verticale perfettamente liscia è stata scavata una nicchia. Chissà chi, quando e perché l’ ha realizzata, sfruttando tempo e pietra che avrebbero potuto essere più produttivi. Ma è la fede che smuove le montagne, o almeno aiuta a scavare sotto di esse.
“Le cave ad ingrottamento sono le più antiche – continua Federico – Poi ad un certo punto si smise di scavare partendo dal mare”.
Una piovosa domenica d’inverno, era già notte, quando un’ infiltrazione fece cedere un pilastro e crollò l’intera copertura di una galleria. Nonostante si lavorasse di solito a ciclo continuo, fortunatamente in quei sotterranei non c’era nessuno.
Scampato il pericolo, si iniziò a scavare dall’alto, rimuovendo completamente il piano di campagna per poi scendere in profondità. Senza più un tetto sulla testa, diminuiva il pericolo di crolli, ma i pirriaturi (i cavatufo) si ritrovarono a lavorare con il sole costantemente sulla testa e l’impatto ambientale fu notevolmente superiore.
Oggi che ormai l’ epopea del tufo è sostanzialmente terminata, le conseguenze sono ben visibili: immense piazze si aprono tra pilastri di pietra non lavorabile. Il caldo e la mancanza d’ acqua sono tali che persino i fichi seccano. Le piante di cappero invece se ne infischiano e spuntano numerose.
Posso solo cercare di immaginare quali fossero le condizioni di lavoro, soprattutto prima che la ruota diamantata sostituisse le mannare ed il lavoro fisico necessario per l’ estrazione dei blocchetti di tufo diminuisse considerevolmente.
Qui, tra cunicoli sotterranei e ampi spiazzi circondati da pareti che nascondono la vista del paesaggio circostante, è facile perdersi. Ma si può essere sicuri che prima o poi, in un modo o nell’ altro, si arriverà al mare. Un’ uscita verso il mare c’è in ogni cava.
Potrebbero volerci ore e numerosi tentativi, però.
“Se guardi bene, troverai altre sorprese” mi aveva avvertito Federico. Ed in effetti, svoltato un angolo mi accolgono piante da frutto ed un piccolo orto. Sono in proprietà privata da quando mi sono inoltrato nelle cave. Ma forse, se mi scoprisse qui, il proprietario avrebbe qualcosa in più da ridire.
Porzioni di queste cave abbandonate hanno trovato una nuova destinazione. La posizione sottoposta protegge le piante dal vento incessante, ed offre un po’ di ombra in più agli estremi del giorno. Il proprietario di questo giardino ipogeo potrebbe essere il signore che vende frutta e verdura che ho incontrato poco prima di lasciare l’ auto. O chi vive nella casa che vedo lassù. In ogni caso, non credo che sarebbe felice di vedermi gironzolare attorno ai frutti che ha visto crescere con tanta difficoltà.
Da questo punto di osservazione privilegiato (ed anche un po’ clandestino) ci si rende conto che non ci vorrebbe molto lavoro per creare una connessione tra tutti questi vari ambienti che la natura ed il lavoro dell’ uomo hanno creato: le cave ingrottate, quelle a cielo aperto, i giardini ipogei, i corridoi che partono dalle case favignanesi e scendono negli scavi. Si potrebbe così creare un percorso aperto a tutti, da sfruttare magari come spazio espositivo e museale e tale da rendere fruibile anche il disastro ambientale che – innegabilmente – è stato generato.
Favignana vive ormai di turismo e di ricordi: la tonnara, le cave di tufo, il vecchio forte che osserva tutto dalla sommità della collina.
Solo lo stabilimento Florio finora ha ottenuto la dignità di un restauro destinato alla preservazione della memoria ed all’ accoglienza dei turisti curiosi. Per tutto il resto c’ è ancora da aspettare
Mi giro e torno nel labirinto, alla ricerca dello sbocco a mare. Da lì è più facile orientarsi.
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